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CENTRO STUDI SEVERINO GAROFANO

SEVERINO GAROFANO, PIONIERE DELL’ENOLOGIA PUGLIESE

di Nino D’Antonio


E’ un trapianto certamente riuscito. Questo sì. E a dispetto di due territori non proprio omogenei. Perché l’Irpinia di Severino Garofano è corrugata e chiusa fra i monti del Terminio e del Partenio, e di contro il Salento, uncinato e piatto, si apre al vento salmastro di due mari. In entrambi i casi, c’è però un dato comune. La presenza di un patrimonio viticolo che non ha riscontro. L’Irpinia con il Taurasi, il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino – fra le più celebrate Docg del Sud, a non considerare la Falanghina - e il Salento con la felice accoppiata del Primitivo e del Negroamaro.

Due realtà che hanno segnato profondamente la vita di Severino. Prima l’infanzia a San Potito Ultra, poi gli anni di scuola all’Istituto Agrario di Avellino fino alla specializzazione in Enologia e Viticultura, e infine il trasferimento nella Puglia del Salento per le prime esperienze di lavoro. Che maturano presso l’Azienda Candido di Sandonaci, in un momento di estrema tensione per il prezzo dell’uva, che non mancò di provocare anche violenti scontri con le forze dell’ordine.

A metà degli anni Cinquanta, la Puglia dei grandi vini è ancora tutta da venire. Si produce in grosse quantità vino sfuso, spesso d’incerta origine, ma sempre di forte carattere. Un requisito che ne favorisce la vendita al Nord, specie in Piemonte, per irrobustire uve pregiate, ma piuttosto deboli. Così la produzione nasce da una folla di vignaioli, che operano con criteri empirici, sull’esempio dei padri.  

Garofano, classe 1935, in gioventù deve essere stato un gran bell’uomo. Alto e forte, ma soprattutto aperto e leale, specie nei rapporti di lavoro. Così non sorprende che la sicura professionalità e un continuo aggiornamento lo abbiano accreditato come uno dei migliori enologi del Sud.

Lo incontro a Copertino, in quella che è oggi la sua azienda, la Masseria Monaci. Un traguardo che suggella il successo di una vita, ma che non ha mai escluso la sua attività primaria come consulente di varie aziende, in Puglia e in Calabria. Non vedo Severino da un po’ di anni, e questo rende più affettuoso e direi commosso il nostro abbraccio. “Cosa vuole. Era fatale che prima o poi facessi del vino per me. Anche se ho sempre considerato mio, tutto quello che ho tirato fuori per gli altri, in mezzo secolo. D’altra parte, solo con questo spirito si possono raggiungere buoni risultati. Poi – diciamolo pure – avevo un dovere verso i miei figli. Se hai fatto qualcosa di buono, bisogna lasciarlo in eredità. E il mondo del vino si è sempre basato sulla continuità delle famiglie…”.

E’ un mattino di sole generoso, dopo giorni incerti. L’aria stagnante sembra quasi anticipare le calure estive, e dalla terra si levano leggeri vapori, come spirali di fumo. Il rituale della visita all’azienda comincia dai vigneti. Un passaggio d’obbligo per Severino, anche se la Masseria è un felice esempio di quella architettura rurale che ha fatto scuola in Puglia. “Non sarà mai sufficiente ripetere che il buon vino nasce nella vigna. Perché è qui che l’uva acquista quei caratteri che sono espressivi del territorio, del clima, del tipo di coltivazione, della storia. La tecnica in cantina serve a poco, se la materia prima è scadente”.

A passi lenti, tra i filari già ricchi di germogli in questo aprile, la campagna lo riporta fatalmente agli anni dell’infanzia. Al ricordo delle prime scoperte fra zolle e radici cariche di mistero. Un viaggio a ritroso in quell’Irpinia segnata dall’isolamento e dalla povertà. Due condizioni che rimarranno tali fino al terremoto dell’Ottanta. Quando un evento tragico e luttuoso finirà per rappresentare un’occasione di svolta per quelle terre. “Dissennata e spendacciona quanto si vuole, la ricostruzione ha portato anzitutto le strade, e questo ha cambiato la storia…”.

I Garofano avevano casa e una vecchia cantina nel cuore di San Potito Ultra, poco più di mille anime, e senza troppa storia. Un insediamento come tanti, nato per evitare la fuga dalle campagne ai tempi delle invasioni longobarde. E per secoli, niente più di un pugno di case intorno alla chiesa.  

I vigneti, invece, erano in collina. Così la vendemmia dava luogo a trasferimenti allegri e chiassosi, che finivano per coinvolgere l’intera comunità. Allora il rapporto con la terra e con l’uva era ben diverso da quello di oggi. Niente macchine agricole e contenitori di acciaio. Ma solo vecchie botti da lavare con cura, perché i residui non danneggiassero il mosto. Il lavoro andava avanti solo a forza di braccia, in terreni spesso impervi, dall’alba al tramonto. Poi il ritorno in paese, quattro chiacchiere all’osteria e la partita a carte, prima di una frugale cena al tepore del camino.

Severino ha immagini tutt’altro che sfocate di quegli anni. Così prendono via via corpo i protagonisti, i discorsi, gli umori della cucina, il sapore dei cibi e soprattutto l’odore del vino. Che non era però quello intenso e forte della spillatura. Per cui si è convinto che a lui, bambino, venisse dato un vino largamente battezzato.

“Mio nonno – io porto il suo nome, com’è tradizione nel Sud – aveva poca scuola alle spalle, ma in fatto di viti e di vino, era un genio. Avvertiva la più piccola variazione di una pianta e sapeva cogliere come pochi il momento giusto per la vendemmia, senza mai anticiparla per il timore della grandine. E questo per chi coltiva Aglianico è pregiudiziale, allora come oggi. Il vitigno è difficile, fortemente tannico, e se sbagli il punto di maturazione, c’è ben poco da fare in cantina per correggerlo… I primi insegnamenti li ho avuti da lui…”.

Poi, sono venuti i sei lunghi anni di Enologia e Viticoltura all’Agrario di Avellino. Una scelta maturata grazie anche all’incoraggiamento del preside, che lo orienta verso questa specializzazione, che allora muoveva i primi passi. Altra galleria di ricordi, altre immagini di compagni e docenti. Che Severino Garofano mescola al clima di quegli anni, al dibattito sul ruolo della viticoltura, alla crisi dei mercati, all’avvento delle bottiglie, agli esordi delle Doc. E’ una preistoria affascinante, che suggerisce non poche riflessioni e spunti critici all’attuale realtà del settore.

“Sono cambiate molte cose. Forse più di quanto potessimo credere e sperare. Anche se c’è ancora parecchio da fare. Il vino non è soltanto business, ed è triste considerarlo sotto questa ottica. Ma per investirlo del ruolo che gli compete, occorre un’adeguata informazione. Che deve partire da chi lo produce. Il vino non è quello che c’è nella bottiglia, ma quello che c’è dietro. Perché è qui il suo fascino, la suggestione, l’emozione che riesce a darci. Nei riflessi del bicchiere bisogna vedere la storia, il passato, tutta una civiltà”.

Più che una riflessione, quella di Severino Garofano ha il sapore di una rivendicazione, di un’invettiva contro la superficialità, l’approssimazione, se non addirittura la rinuncia a “scoprire la grande magia del vino”. Uno sfogo più che legittimo da parte di chi ha consacrato la vita non solo alla ricerca di quei caratteri che fanno di ogni vitigno un mondo a sé, ma anche di quei ceppi umili e trascurati, in via di estinzione, dei quali si sarebbe persa ogni traccia. E’ riconducibile a questo credo l’impegno profuso a piene mani all’interno dell’Assoenologi – ancora prima della sua attuale configurazione - quale presidente delle sezioni Puglia, Basilicata e Calabria, un tempo unificate. Un cursus honorum che lo porterà alla vicepresidenza nazionale.

Copertino, già mezzo secolo fa, era una cittadina ricca e gradevole. E non solo per le numerose architetture rinascimentali (ben sei complessi monastici e un superbo castello di epoca normanna), quanto per la felice ubicazione in Terra d’Otranto, da sempre centro per il commercio dell’olio e del vino, che dal vicino porto di Gallipoli prendevano la via del mare. E la città piacque subito a Garofano, anche per quella sua aria un po’ leziosa e vagamente spagnola, che ancora testimonia della lunga dominazione.

Il lavoro alla Cantina Sociale di Copertino è per il giovane enologo uno straordinario banco di prova. Che nel giro di pochi anni gli permetterà di scoprire i vini del Salento e poi quelli dell’intera Puglia, dal Tavoliere alle Murge. E’ un patrimonio antico e nobilissimo, che secoli di anonimato e di selvaggia coltivazione avevano mortificato e disperso. Così non restava che recuperare la più sana tradizione, quella degli impianti ad alberello, e intervenire col massimo rigore per contenere la dilagante produzione. Eppure, proprio qui sono nati vini che dai fasti del Rinascimento hanno trionfato alla tavola dei Brienne, dei d’Enghien, dei Castriota, vale a dire dei grandi feudatari di queste terre.

“Ho cominciato con il Negroamaro. Un’uva di particolare fascino, quantomai espressiva del territorio. Qui a dominare sono le argille di varia composizione, che poggiano su pietre calcaree dure o tufacee, in un contesto che raramente supera i cinquanta metri di quota… Poi è venuto il Primitivo e via via il Nero di Troia, il San Severo, il Locorotondo. Così non c’è vitigno pugliese con il quale non abbia un’antica confidenza…”.

E direi che altrettanto vale per la Calabria, altra terra i cui vini avrebbero meritato da tempo maggiore fortuna. Con la discrezione che gli è propria, Severino parla di uve più che di vini, evitando così di citare che molti celebrati cru recano la sua firma. A cominciare da quelli salentini, come il Patriglione, il Notarpanaro, il Graticciaia – e la citazione è senz’altro lacunosa – fino ai vini della Calabria ionica, nell’areale del Cirò, come il Gravello e il Duca San Felice.

Il sole trascorre ancora radente tra i filari di alberello, mentre torniamo sui nostri passi. La Masseria Monaci è una vasta e solida costruzione, al cui interno c’è una cantina che ha avuto una lunga storia da queste parti. Nel Novanta, Severino Garofano l’ha rilevata. Poi la paziente opera di ristrutturazione affiancata dai nuovi impianti di Negroamaro e Copertino Rosso. Un’impresa che ha richiesto impegno e amore, nel più sacro rispetto dei luoghi e della tradizione. Qui Severino ha passato la mano ai figli Stefano e Renata, riservandosi la cura dei vigneti e della cantina. Un lavoro tutt’altro che agevole, visto che la Masseria Monaci può contare su trenta ettari, alcuni dei quali nel territorio di Troia. Ma per chi ha vissuto sempre fra vini e botti, non c’è fatica che tenga, anche a dispetto degli anni.

Severino appartiene a quella generazione di mezzo, fra la vecchia viticoltura dai risultati più che modesti e il crescente successo dell’ultima stagione. Che è come dire dagli interventi empirici alla scoperta delle tecniche di vinificazione. E poi le barriques, i criteri che regolano la degustazione, il valore degli autoctoni, la figura del sommelier, il linguaggio che accompagna il vino.

“Sì, e devo dire che per capire l’anima del vino, i meccanismi fisiologici, le sfumature olfattive, sono andato in Francia nel ‘75 e ancora l’anno successivo. Prima alla Station Enologique de Bourgogne a Beaune, e poi alla Maison du Vin di Bordeaux. L’uso delle barriques, invece, l’ho scoperto nel corso delle visite ai Domaines e agli Chateaux. Ricordo che ne portai in Puglia alcune, realizzate con varie essenze di legno, e avviai una lunga sperimentazione”.

E qui il discorso coinvolge quella stagione carica di incognite, che segnò l’avvento delle barriques. Siamo nello studio, che si apre ampio e luminoso alla vista dei vigneti di Negroamaro. Alle pareti premi e riconoscimenti messi insieme nel corso di una vita, ma anche tante foto, qualcuna a testimoniare che Severino si è spinto fino agli estremi lembi della Norvegia e nelle terre dei Lapponi per accreditare i vini pugliesi. Fra i quali – almeno sul piano sentimentale – un posto d’onore spetta al Copertino Rosso della Cantina Sociale, semplice, pulito, con tannini morbidi, il vino che gli ha dato tante soddisfazioni. E che certamente non è estraneo al conferimento del Premio Veronelli quale migliore winemaker per il 2007.

Un riconoscimento che si aggiunge a quelli ufficiali (cavaliere, commendatore, maestro del lavoro), e alla medaglia d’argento di Cangrande, nell’ottanta, “per il determinante contributo allo sviluppo dell’Enologia italiana”, fino al Gourmet’s winemaker of the year 1994, di Stoccolma e alla nomina a socio ordinario dell’Accademia della Vite e del Vino. Anche se l’orgoglio maggiore di Severino è legato al Centro Studi Vini - nato a Lecce negli anni Sessanta - per la valorizzazione del territorio e dei suoi vitigni più tipici, e alla “Voce Enotecnica”, il periodico d’informazione professionale e legislativa, da lui curato per oltre dieci anni. L’impegno, poi, a favore del Negroamaro e del Rosato del Salento, ha dato vita ad alcune specifiche pubblicazioni.

E’ comprensibile che il nostro incontro continui a ruotare intorno alla Puglia e ai suoi vini. Così, anche quando l’argomento sembra esaurito, Severino Garofano ha sempre una chiosa. “Pensi che qui, per oltre trecento chilometri, è tutto un vigneto - dalle falde del Gargano al Capo di Leuca – che in gran parte si affaccia sul mare. Un elemento che ha una indiscussa influenza nella definizione del clima e dei microclimi. E questo non vale solo per il Salento, stretto fra due mari, ma anche per la fascia adriatica, con alle spalle le colline delle Murge. Di qui un flusso di correnti, da e verso il mare, che ha determinato l’identità del nostro patrimonio viticolo”.

Severino ha una bella famiglia, pienamente contagiata dalla passione per il vino. I due figli hanno raccolto il testimone e portano avanti con legittimo orgoglio la sua lezione. L’enologo-storico del riscatto pugliese è una persona che si abbandona con piacere al vizio della curiosità verso ogni forma di conoscenza, dalla letteratura all’arte alla fotografia, per la quale ha una vera e propria passione, come prova la ricca raccolta di immagini dei suoi tanti viaggi. Lettore assiduo, privilegia i saggi alla narrativa, e non ha preferenze fra la musica classica e il jazz, anche se sono le grandi orchestre degli anni d’oro a coinvolgerlo sul piano emotivo. Quello stesso che continua a fargli inseguire il teatro di Eduardo, per la sua straordinaria dimensione umana.

Garofano ha un buon rapporto con la cucina, e se la cava con notevole disinvoltura fra pentole e fornelli. Grazie a un palato esigente, riesce sempre a trovare il giusto equilibrio tra i piatti di tradizione e quelli creativi. Nessuna confidenza, invece, col mondo dello sport. L’unica attività fisica che conosca è quella di “aver camminato per una vita tante vigne”. Che rappresentano anche l’oggetto della sua religiosità: un Dio-natura, la cui immagine, da Dioniso a Bacco, ha regalato all’uomo il piacere del vino. “Una delle poche cose per cui vale la pena di vivere, mi creda…”.


Da Oinos, che Passione (col permesso dell'autore)

Severino appartiene a quella generazione di mezzo, fra la vecchia viticoltura dai risultati più che modesti e il crescente successo dell’ultima stagione. Che è come dire dagli interventi empirici alla scoperta delle tecniche di vinificazione.

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